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Macellazione del maiale: la tradizione si fa rito

6 minuti di lettura
di PASQUALE LOIACONO Il maiale è stato per secoli la dispensa dei calabresi e non solo: la sua macellazione, rigorosamente fatta in casa sino ad una trentina di anni fa, è un rito antico al quale partecipa tutta la famiglia. Una festa, forse cruenta, che ha segnato e scandito la vita di un’intera regione. Quasi tutti avevano il porcile, il zimmunu (dal tedesco zimmer, stanza) ove ricoveravano e allevavano il maiale con gli avanzi di cibo pasturati e con la caniglia, la crusca. I zimmuni, vere e proprie porcilaie, erano concentrati per lo più in grotte scavate nel tufo e comunque fuori dal centro abitato: una volta al giorno, generalmente nel primo pomeriggio, era una processione interminabile di donne con in testa l’ondeggiante secchio della vrurata da svuotare nella scifella (una sorta di contenitore ad angolo fra due lati del zimmunu e rialzato per non far traboccare la brodaglia) ove si avventava, voracissimo, il porco, con gran soddisfazione del proprietario che lo vedeva ingrassare giorno dopo giorno e già pregustava salsicce, soppressate, prosciutti e tutto il ben di dio che dall’animale si ricava. Quando il maiale superava il quintale, generalmente fra dicembre e febbraio, ci si preparava all’uccisione della bestia, anche perché il freddo dell’inverno permetteva la conservazione della carne e la stagionatura dei salumi. Prima della data stabilita, si cominciava ad “ammolare” i coltelli e a preparare la mailla (madia). La mattina dell’uccisione, le donne si svegliavano che era ancora buio per preparare un enorme pentolone di acqua bollente che sarebbe servita successivamente per radere le setole del porco. Alle prime luci dell’alba, gli uomini, con un secchio di ghiande rumoreggianti allo scopo di farsi seguire docilmente, prelevavano il maiale che, affamato ma riottoso (a bella posta, non gli si dava da mangiare nelle ore precedenti all’uccisione per favorire lo svuotamento delle budella), probabilmente aveva intuito la sorte che gli sarebbe toccata da lì a poco. L’uomo che avrebbe poi scannato la bestia preparava un nodo scorsoio con una corda, quindi si avvicinava all’animale e, con molta abilità, ne agganciava l’incisivo facendo due o tre giri attorno al muso per impedirgli di mordere. Altri afferravano il suino tenendolo saldamente e scaraventandolo su una grossa panca. I più pavidi, invece, avevano il compito di stringere la coda: operazione inutile, tanto che ancora oggi, se si affida a qualcuno una mansione simbolica, senza alcuna responsabilità, si dice che “tiene la coda al porcello”. Il carnefice, munito di un coltellaccio lungo e affilato (u scannaturu), tranciava di netto la giugulare del porco che si dimenava lanciando grugniti altissimi e spaventosi rimbombanti in tutto il paese. Fra i bambini eccitati, c’era anche chi, più sensibile, si nascondeva, tappandosi le orecchie per non udire quegli strepiti disperati. Il sangue, che zampillava copioso dalla gola del porco colando in una pentola, era rigirato continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Esso, infatti, sarebbe stato poi l’ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema da spalmare sul pane, di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi. Dopo una lenta agonia, il povero animale esalava l’ultimo respiro e allora ci si preparava a raschiare la cotenna.  Quando anche questa operazione era terminata, il “macellaio” incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoriuscire i tendini nei quali veniva infilato un attrezzo di legno a forma di triangolo senza base sicché, con l’aiuto di una carrucola, o più semplicemente a forza di braccia, l’animale, per essere squartato, veniva issato e appeso ad un gancio che spuntava dal soffitto. A questo punto, aveva inizio un’operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la perizia del “macellaio”. Per prima cosa, estraeva l’apparato genitale dell’animale ‒ che veniva usato dai falegnami per ungere le seghe ‒ quindi tagliava la testa. Poi passava, delicatamente, ad aprire il ventre dal quale cavava la vescica, subito affidata ad uno degli aiutanti perché, dopo averla svuotata, la lavasse accuratamente e, con l’aiuto di una cannuccia, la gonfiasse. La vescica, nei giorni successivi, sarebbe stata riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Dunque, con molta attenzione, onde evitare di forare le budella, toglieva tutto l’apparato digerente, il colon e l’intestino tenue. Tutto finiva in una bacinella e per le donne cominciava un lavoro lungo, fastidioso e delicato: lavare decine e decine di metri di intestini che, rivoltati, erano collocati in una grande pentola piena di acqua fredda assieme a limoni e arance. Era la volta di polmoni, fegato e cuore e la carcassa, svuotata completamente delle interiora e tagliata in due parti, le menzine, nel senso della lunghezza, veniva sganciata. Ora, finalmente, gli uomini potevano riposare, mentre le donne continuavano il loro tour de force. Per prima cosa, affettavano un pezzo di fegato e lo avvolgevano nel peritoneo (picchjiu) che, con qualche pezzo di carne tagliato dal collo della bestia, finiva sulla griglia per fare da colazione agli uomini che avevano lavorato così duramente e che ora non disdegnavano un po’ di arrosto e un paio di bicchieri di vino. Infine, preparavano un sontuoso pasto a base di maccheroni al sugo, ovviamente di maiale.  Dopo la frolla della carne, il giorno successivo si provvedeva al sezionamento, operazione affatto semplice che richiedeva perizia ed esperienza, e allo sminuzzamento delle parti. Nella prima metà del secolo, almeno dalle nostre parti, non erano ancora diffuse le macchinette tritacarne per cui la polpa di salsicce e soppressate veniva tagliuzzata a mano fino a essere ridotta a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni. Una volta preparata la pasta col sale e le spezie, si procedeva poi alla lunga e fastidiosa operazione dell’insaccaggio. L'ELOGIO DEL PORCO L’ingratitudine umana non ha confini. Del porco usiamo la carne come cibo e il nome come insulto. Porco indica odio e disprezzo verso una persona ed è anche simbolo dei vizi umani, principalmente la lussuria. Porco è la persona di costumi disonesti, volgari. Porco è sinonimo di avido, ingordo e Dante chiama “brutti porci” gli abitanti del Casentino (una valle della provincia di Arezzo). Porco e sporco sono sinonimi. “Sudicio come un porco” indica il massimo della sporcizia. Perché il porco non si lava, è ovvio; a differenza del gatto che con la lingua si lecca e ammorbidisce il pelo meglio del Perlana. Ma nemmeno si lava la gallina, e la più pregiata è quella ruspante che banchetta sul letamaio, anzi, banchettava, perché adesso non esistono più né il letamaio né la ruspante. Eppure la gallina non viene indicata come un’incorreggibile nemica dell’igiene. Perché ce l’abbiamo tanto col porco? Se pensiamo all’uso totale che facciamo della sua carne (salame, salsiccia, soppressata, prosciutto, pancetta, lardo); se consideriamo i molteplici prodotti derivati dalle sue parti non commestibili (spazzole, pennelli, colle, concimi, selle), al maiale noi dovremmo erigere un monumento. Il porco è come la musica di Verdi, non c’è nulla da buttar via, dicono quelli di Parma, gente di orecchio e palato fino. E l’onorano al pari di una divinità. Infatti, il porco veniva sacrificato alla dea dell’agricoltura Maia, donde il nome maiale. Quando diamo del maiale a un avversario, questi dovrebbe ringraziarci: gli stiamo prospettando l’Olimpo. Si dice “porco Giuda”, ma il porco non ha mai tradito nessuno e, soprattutto, non ha mai baciato nessuno, e nessuno si farebbe baciare da lui. Si dice “porca l’oca”, offendendo due bestie in un colpo solo. Col piede di porco, associamo arbitrariamente alle imprese ladresche l’onesto suino, animale totalmente privo del senso del denaro che disprezza oro e gioielli; non a caso, il Vangelo di Matteo esorta: “Non gettate le perle ai porci, perché non le calpestino”. Ma il maiale è entrato anche nel lessico politico dei giorni nostri: la disgraziata legge elettorale di cui tutti parlano si chiama “porcellum”, e a battezzarla così fu addirittura il suo autore (il dentista della Lega, Calderoli) che, come certi genitori incerti della propria paternità, la rinnegò definendola “una porcata”. Bestia esemplare, il porco ha acquisito benemerenze insigni, ma non si dà arie. Chissà come si pavoneggerebbe, nei suoi panni, il pavone. Durante le guerre, impedì a molta gente di morire di tessera annonaria. Quando abbiamo bisogno del suo aiuto, se non può darci una mano, ci dà sempre una zampa. Anzi uno zampone. Quando i veneziani trafugarono dall’Egitto il corpo dell’evangelista Marco, lo nascosero sotto i quarti d’un maiale, sapendo che i gendarmi musulmani si sarebbero rifiutati di toccare quella carne, vietata dalla loro religione. Se andiamo un po’ più indietro nei secoli, scopriamo che fu una scrofa a indicare ad Enea, arrivato dal mare, il luogo dove, secondo i fati, doveva sorgere Roma. Nonostante questi quarti (è la parola) di nobiltà, continuiamo a pronunciarne il nome con un misto di schifo e di disprezzo. E se un amante litiga con l’amata, l’oltraggio più rovente è il nome della femmina del porco, che è anche quello della guerra cantata da Omero e vinta dai greci, grazie al famoso cavallo di.
Redazione Eco dello Jonio
Autore: Redazione Eco dello Jonio

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